Sceglie l’eutanasia a 23 anni. Una società che fatica ad ascoltare (e curare) il dolore

Suscita molto dolore e inquietudine la notizia della morte di Shanti De Corte, ragazza belga di 23 anni che ha ottenuto l’eutanasia legale a causa di un’incurabile sindrome depressiva post-traumatica. Nel 2016 a Bruxelles era scampata all’attentato avvenuto all’aeroporto di Bruxelles-Zaventem rivendicato dall’Isis. 

Ora è morta per le conseguenze di quell’evento drammatico, che l’ha ferita fino in fondo all’anima.

Shanti era lì quando è esplosa una bomba nell’area dei check-in dello scalo aereo, e non è più riuscita a lasciarsi alle spalle quei momenti. Dalle notizie pubblicate sui media locali pare che soffrisse già in precedenza di problemi psicologici, e che da lì in poi siano drasticamente peggiorati, finché i medici l’hanno riconosciuta incurabile e quindi con le carte in regola per ricorrere all’eutanasia.

Questa vicenda drammatica offre numerosi spunti di riflessione, anche senza entrare nel merito del singolo caso, al quale ci avviciniamo con dolore e rispetto. 

Nel periodo della pandemia è stato riscontrato un grande aumento delle segnalazioni di sofferenza psicologica, anche a Bergamo. Un problema che riguarda in una percentuale molto elevata adolescenti e giovani. Viene spontaneo chiedersi se queste segnalazioni ricevano l’attenzione e l’aiuto che meritano, se le energie dispiegate in questo settore siano sufficienti e tengano conto delle necessità emergenti.

In secondo luogo ci pare che la richiesta di morire da parte di una ragazza così giovane – e tanti ce ne sono ogni anno anche in Italia che tentano di togliersi la vita – possa nascondere un disagio più profondo, non solo individuale ma sociale. Può essere interpretata come un altro segno della progressiva sfilacciatura a cui sono sottoposte le reti di comunità, le relazioni, la capacità di comunicare e di instaurare legami significativi (non basati su follow e like ma sulla vita reale).

Ci sembra davvero “estremo” che una richiesta simile sia stata accolta con tutti i crismi della legalità: realizza le peggiori perplessità sull’autodeterminazione del “fine vita”, sullo sdoganamento dell’eutanasia legale, perché mostra di poter davvero esporre persone fragili, non terminali, a una morte prematura. Accorcia le sofferenze, sì, ma non rappresenta di fatto un fallimento delle capacità di cura e di attenzione?

Ci offre infine un potente stimolo a un rinnovato impegno per migliorare le relazioni sia in ambito personale sia professionale, ad essere più attenti, a praticare, come scrive Anne Herbert, “gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”, a considerare le persone nella loro interezza e non solo in funzione di ciò che possono “produrre”.