I bimbi a casa tre mesi: scuola “parcheggio” o sistema da rivedere?

Mi sono posta molte domande dopo l’articolo pubblicato la scorsa settimana nel quale parlavo di quanto sia assurdo, per me, che la scuola resti chiusa tre mesi.

È un tema delicato, che tocca al contempo il sistema scolastico, le politiche a sostegno della genitorialità, l’economia, la società moderna.

Ho ricevuto moltissimi commenti, alcuni spiazzanti: c’è chi fa notare che d’estate “fa troppo caldo e gli edifici scolastici non sono attrezzati per affrontarlo”, quindi è giusto che le scuole chiudano; chi mi consiglia di stare a casa a far la mamma “come natura crea”; chi ritiene che il mio problema sia solo quello di dover “parcheggiare” due bambini. C’è chi fa notare che anche negli anni ’80 si trascorreva l’estate a casa “senza tutti questi problemi”.

La maggior parte dei genitori che hanno inviato i propri commenti ritiene però che il sistema scolastico vada rivisto: “in Italia abbiamo un sistema scolastico anni ’50, pensato sostanzialmente per le insegnanti che sono le uniche che d’estate hanno il diritto di godersi i figli”; “a me personalmente piacerebbe molto di più una pianificazione tipo quella francese: un mese in meno d’estate, ma molte più vacanze durante l’anno”; “la società, le famiglie, il mondo del lavoro…è cambiato tutto, tranne la scuola, ferma a 60 anni fa, quando le mamme realmente facevano due o tre mesi di villeggiatura e spopolavano le città”.

Scopro tra l’altro da un post che “in un mondo in cui abbiamo l’Intelligenza artificiale, esploriamo il cosmo, inventiamo i 4 salti in padella Findus e mangiamo le fragole in inverno, in Italia i nostri figli smettono di andare a scuola i primi di giugno e riprendono verso metà settembre per venire ad aiutarci a raccogliere il grano nei campi. Il nostro sistema scolastico segue il ciclo del grano. Capisco l’italica affezione alle tradizioni, ma direi che dalla riforma agraria dei Savoia potremmo fare uno sforzo di rielaborazione dei ritmi scolastici”.

Ancora, c’è chi condivide la propria esperienza: “Noi riusciamo a permetterci solo due settimane di CRE (pasti e gite esclusi). Poi i bimbi dovranno rimanere un mese a casa (con me al piano di sopra che cerco di lavorare) ad aspettare che comincino le nostre due settimane di vacanza. Poi altre due settimane a casa ad annoiarsi prima che ricominci la scuola. Un supplizio ogni dannata estate, soprattutto da quando i figli sono due”.

E poi c’è Roberta, che è stanca, ma non può smettere di lottare

Di tutto quel che ho letto, tra commenti e condivisioni, la storia che più mi ha toccata è stata quella di Roberta. Sua figlia, Emma, è affetta da una malattia rara, la sindrome di Angelman. E i tre mesi estivi sono per loro una vera e propria lotta alla sopravvivenza.

“Siamo fortunati, nella zona in cui viviamo c’è una scuola di ballo meravigliosa, la Rosy Dance, che d’estate organizza un centro estivo e accoglie Emma per tre ore al mattino – mi racconta Roberta al telefono -. Ma per il resto è tutto molto complesso. I bambini che soffrono di disabilità gravi passano da giornate organizzate a un’estate di vuoti e fatiche, nella quale spesso ricompaiono problemi comportamentali e di sonno. Per loro, in genere, non ci sono proposte. I CRE non sono attrezzati per accoglierli, eppure non servirebbe chissà cosa per riuscire a farlo. I ragazzi come Emma non parlano ma hanno un gran bisogno di socialità, basterebbe pensare in modo diverso, ricordare che esiste la gestualità, strutturare progetti che li coinvolgano. Certo, i progetti vanno pensati, non improvvisati. Purtroppo alla fin fine le cose funzionano solo se c’è qualcuno di buona volontà che intraprende battaglie, spesso da solo. Tutto è in mano a volontari, bisognerebbe sostenere chi fornisce servizi. A me sembra che la situazione, invece di migliorare, col tempo stia peggiorando”.

Mi ha colpito molto quel che Roberta mi ha ripetuto più volte: se una cosa la vuoi, la fai. E alla fin fine non è poi così difficile. In cambio, ottieni la soddisfazione impagabile di riuscire a regalare esperienze uniche a chi farebbe fatica a viverne.

“Ti faccio un esempio, avevano organizzato una gita in cascina e per farci arrivare anche un bambino sulla sedia a rotelle hanno chiesto in prestito un carrettino a un signore della zona. Beh, a volte basta cambiare prospettiva”.

Già, come in molte altre cose, a volte basterebbe cambiare prospettiva. Pensare: cosa sta vivendo quella persona? Diventare empatici. Provare a mettersi nei panni dell’altro. Forse, un pochino, il mondo cambierebbe.