Lo stereotipo del migrante: Elvira Mujčić al Festival delle Rinascite

La quarta e penultima serata di Migliori – Festival delle Rinascite 2023 è stata ricca di suggestioni e spunti di riflessione, grazie al dialogo tra due giovani, Federica ed Anna, ed Elvira Mujčić, nata in Jugoslavia e laureata in lingue e letterature stranier

Quello della migrazione è uno degli ambiti in cui gli stereotipi si rappresentano al meglio. Ma come funzionano gli stereotipi, e che senso hanno nel nostro vissuto comune? Partendo da qui, Mujčić ha raccontato di come essi siano anche utili. L’uomo si serve infatti degli stereotipi per avvicinarsi e stabilire un primo contatto con qualcosa che ancora non conosce. Tuttavia, essi non possono rimanere tali: se all’inizio risultano strumenti di avvicinamento, approfondendo la conoscenza
dell’altro si ha il dovere di depotenziarli, perché alla realtà fittizia creata dal nostro giudizio si sostituisce, per mezzo dell’esperienza, la verità fattuale.

È per questo motivo che non c’è spazio, ad esempio, per gli slogan e i modelli che la politica utilizza per descrivere gli stranieri. Essi sono superficiali, denotano una mancanza di conoscenza sull’argomento trattato e, soprattutto, giungono nelle nostre case come frutto di una realtà mediata che ci presenta la questione come molto diversa rispetto a quello che è. I mezzi sono, ovviamente, quelli di comunicazione moderna: social, televisione e quant’altro.

Lo stereotipo del migrante che abbiamo noi – che deve essere in un determinato modo e mostrare un certo atteggiamento, senza il quale l’opinione comune stenta a classificarlo come migrante – è infatti profondamente mediato dalla nostra percezione del fenomeno. Alcuni interventi di politici negli anni hanno spesso sottolineato, ad esempio, quanto sia contraddittorio che un migrante desideri un cellulare non appena sbarcato in Italia.


Facendo esempio della sua esperienza personale, Elvira Mujčić ci parla di come il primo pensiero di sua madre, appena arrivate in Italia, a Brescia, dalla Jugoslavia in guerra, sia stato di trovare un radioamatore per comunicare con suo padre, che era rimasto in patria. Perché per un migrante di oggi dovrebbe essere diverso? Spesso chi viene soccorso al largo delle nostre coste non vede e non comunica con la famiglia addirittura da anni. Nella narrazione però una richiesta normalissima diventa una pretesa, un qualcosa che non dovrebbe essere dovuto a chi viene universalmente
considerato come vittima, e come tale deve comportarsi.

La solidarietà non dovrebbe essere un rapporto subordinato, ma paritario: chi accoglie deve mettersi in relazione con chi viene accolto in modo equo, senza accenni di superiorità. La stessa cosa avviene purtroppo nelle commissioni destinate all’assegnazione dei documenti necessari, all’interno delle quali, racconta Mujčić, si è sviluppato una sorta di voyeurismo del dolore. In una società fortemente anestetizzata e senza trauma, ci si butta forse su un’autenticità che si pensa di poter trovare all’interno del dolore di altri.
Per poter fare domanda di un permesso di soggiorno o di una protezione d’asilo, serve quindi raccontare la propria storia – ovviamente con il rischio di non essere creduti, e con la costrizione di andare davanti alla commissione e di raccontare qualcosa di estremamente personale a qualcuno che cerca in tutti i modi di dimostrare che menti. Tutto questo per supervisionare quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale dell’uomo, quello allo spostamento, che sembriamo aver dimenticato quando interessa persone povere.

Il concetto è quello del corpo del reato, delle prove tangibili delle violenze che si è subite, ancora una volta per provare di aver meritato – una meritocrazia quasi sadica – attraverso le proprie ferite, un passaggio in una zona meno afflitta. Tuttavia, se il corpo è la chiave di accesso ai documenti, i danni psicologici causati dalle violenze perdono spesso ogni valore e non vengono considerate.

L’esperienza di Elvira Mujčić come immigrata è stata molto più logica da questo punto di vista: non c’era bisogno di ostentare dolore per ottenere asilo. Si trattava però di un contesto molto più umano e memore di periodi bui della nostra storia, periodi che ispiravano solidarietà. Purtroppo questo sentimento si è andato un po’ a perdere, in una società più lontana dal concetto di memoria e di empatia.

La chiusura dell’incontro è una domanda sulla questione della “doppia assenza”: la doppia assenza è ciò che si prova nell’abbandonare un paese, la lingua, gli affetti in un preciso momento, per spostarsi in un altro paese che non senti propriamente tuo. Ma non si tratta solo di questo: un migrante saluta un luogo e quando vi ritorna, non lo riconosce. Ciononostante, il posto nuovo che raggiunge non viene sentito come completamente suo.
Sono fratture che ci sono e rimangono, che fanno fatica ad essere ricomposte. Questo senso di sradicamento non è necessariamente sbagliato o frutto di insofferenza, ma è una situazione liminare che fatica a rendere unità, ma offre anche grandi possibilità. Possibilità e conoscenze da cui forse tutti possiamo imparare qualcosa.

Il video della serata: