Chi costruisce l’autocoscienza delle nuove generazioni?

Ogni volta che i ragazzi si muovono in manifestazioni di piazza per contestare ogni riforma scolastica, i femminicidi, le mafie, le timide politiche ambientali di COP 28, le guerre…- il lessico interpretativo della coscienza di generazione usato dai cronisti, dagli opinionisti, dagli psico-sociologi ricorre a vocaboli quali “disagio”, “rabbia”, “disperazione”, “furto di futuro” …

Non c’è scampo: le generazioni giovani sono quasi sempre classificate quali infelici, disperate o, almeno, a disagio. 

Ma basta spostarsi dalle strade meridiane alle strade del tramonto, dalle manifestazioni di piazza alla movida stanziale davanti ai bar, per scoprire un altro clima, fatto di allegria e di spensieratezza. Quale descrizione è la più realistica?

La domanda nasce da un sospetto: che la rabbia, la frustrazione, il disagio, la disperazione, la percezione di un “futuro contro” non siano fiori spontanei che nascono nelle verdi praterie delle generazioni giovani – come sostiene la retorica dei mass-media e dei social, seguiti a ruota dalla sinistra intera, al fine di incolparne la destra o addirittura il capitalismo – ma siano prodotti “sforzati”, generati principalmente dalle generazioni adulte ideologizzate e politicizzate e utilizzati come armi nella lotta politica. Insomma, pare a me, come scriveva Braudel, che il nuovo – giovanile –   continui ad avanzare con i vestiti del vecchio – adulto-. 

L’autocoscienza di generazione è costruzione complessa. Si parla di “generazione”, quando – lo ha sostenuto il sociologo tedesco Karl Mannheim – tra i 16 e i 25 anni di età, gli individui si affacciano alla vita pubblica e iniziano a fare esperienza di ciò che sta fuori dalla famiglia, entrano in contatto con eventi storici e politici che formano una “memoria collettiva generazionale”, fatta appunto di credenze, convinzioni, simboli, miti, attribuzioni di senso, che è destinata a durare relativamente a lungo. 

Ora, sono stati il nazionalismo di inizio ‘900 e soprattutto il fascismo con il suo corteo di ideologie propedeutiche a imporre il mito della giovinezza “che si pensa da sé”: dannunzianesimo, avanguardismo, sindacalismo rivoluzionario, futurismo, arditismo quali autocoscienza di una generazione giovane. Del resto Mussolini ha 39 anni – che, però, non equivalgono a quelli di oggi – i suoi uomini migliori – Grandi, Bottai, Balbo… – hanno una trentina d’anni. Il che permette a Margherita Sarfatti di scrivere, nel capitolo intitolato “Giovinezza” del libro “Dux”: “una nazione che ha tutta vent’anni”. Così ricorda Jstor.

Un meccanismo simile si è innescato sul finire degli anni ’60 del ‘900. Le giovani generazioni hanno fornito la benzina biologica a motori ideologici ingegnerizzati dalle generazioni adulte. Così la Scuola di Francoforte, il cristianesimo rivoluzionario del Vaticano II, i marxismi rivoluzionari eretici hanno dato la parola e la coscienza di sé alle generazioni del ’68. 

Ad ogni epoca il proprio disagio giovanile

Ogni epoca ha il proprio disagio giovanile. Nasce come strutturale, dalla collocazione socio-esistenziale di ogni adolescente, allorché avvia il distacco, più o meno traumatico, dalla famiglia e incomincia a cercare la propria strada.

Ma questo processo strutturale, lo stesso in ogni tempo, è sempre largamente sovradeterminato e differenziato dal contesto storico-sociale. Se ne può fare una piccola storia. All’immaginario di noi boomers appartiene un film americano del 1955, dal titolo originale “Rebel without a cause” – che in Italia divenne “Gioventù bruciata” – interprete principale James Dean, destinato nella realtà a tragica morte prematura.

L’inquietudine dell’adolescente si staglia sullo sfondo delle prime ribellioni alla società opulenta e consumista americana del secondo dopoguerra, dominata da quello che lo stesso Eisenhower definì il “complesso militare-industriale”. Il rock di Elvis Presley di quella incipiente ribellione rappresentò un’altra modalità espressiva, con esiti assai meno drammatici di quelli toccati a Jim Stark, il protagonista del film.

La curva del disagio di quella generazione americana precipiterà nelle risaie del Vietnam, con i suoi 50 mila morti. Ai nostri vent’anni appartiene il film inglese del 1962 “The Loneliness of the Long Distance Runner” – che in Italia divenne “Gioventù, amore e rabbia”, nel quale si rispecchia il disagio di una generazione, che non riesce a salire lungo i gradini della società inglese del dopoguerra, povera e ferocemente classista.

Ma gli anni ’60 in Europa e in Italia non sono gli anni del disagio. Le giovani generazioni sono protese in avanti, verso le promesse dello sviluppo e dello Stato sociale. Le tensioni intrafamiliari si possono sciogliere agevolmente verso l’esterno: la società è accogliente, in via di apertura. Si può conflittualmente abbandonare il tetto paterno per trovarne un altro.

Gli anni del disagio, in Italia, cominciano dopo. Il Movimento del ’68 finisce con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Da quel trauma nascono la sinistra extraparlamentare, il partito armato di sinistra e di destra. Quello che viene agli inizi chiamato “riflusso”, nelle giovani generazioni diventa ripiegamento, fino agli estremi dell’eroina nel Movimento del ‘77.

Si tratta della generazione X (1965-1980). Nonostante ricorrenti fiammate di movimento nelle scuole e nelle Università, le generazioni successive – la generazione Y o “Millennials”, la generazione Z o “Centennials” – si inabissano nella società civile, nella quale trovano poche ragioni di impegno civile e molte di frustrazione e di disagio. 

La generazione Alpha/Screenagers

Quella di oggi é la generazione Alpha o degli “Screenagers”.  La fenomenologia del disagio di questa generazione è oggi variegatissima: depressione e aggressività sono le punte più visibili, con Daspo in aumento, i “maranza” in Piazza Gae Aulenti a Milano … In mezzo stanno l’apatia e l’abbandono alla corrente dei giorni. Di qui alcol, droghe, piccole gang, NEET – in Italia sono circa tre milioni, il 25% dei ragazzi/giovani tra i 15 e i 34 anni – l’eremitaggio sociale, che i Giapponesi chiamano Hikikomori: lo “stare in disparte”. Ma l’autointerpretazione della condizione giovanile come “disagio” e “disperazione” ecc… non è prodotta dai ragazzi.

È la risultante delle dinamiche “naturali” figli-genitori, intrecciate con quelle della storia d’Italia, nel quadro del declino del Paese e della contrazione di potenza economica, scientifica e demografica dell’Occidente bianco.  

Si apre così uno scarto tra le aspettative indefinitamente alimentate dalla società adulta e il reale declino, che inchioda ad aspettative decrescenti. Questa generazione porta il carico delle “opere e i giorni” e delle interpretazioni delle generazioni adulte, dei genitori, delle istituzioni formative, dei mass-media, dei social. Vero è che l’informazione/formazione “tra pari” sta occupando uno spazio crescente attraverso Tik Tok et similia.

Ma è crescente, perché gli adulti hanno contratto lo spazio educativo. Dire ai ragazzi la verità sul mondo così com’è, senza l’intermediazione dei “sogni”, delle “emozioni”, dei “desideri” e dei catastrofismi è faticoso. È più riposante e offre alibi più potenti dire che il mondo è “al contrario”.

E così gli adulti gettano addosso ai ragazzi le proprie delusioni e le proprie paure. Forse non ha tutti i torti il romanziere americano Michael Hopf, quando sembra descrivere la parabola/circolo delle generazioni del Secondo dopoguerra: “I tempi difficili creano uomini forti; gli uomini forti creano tempi facili. I tempi facili creano uomini deboli, gli uomini deboli creano tempi difficili”. 

Ma certamente avevano ragione gli Scolastici medievali: “Ens, Verum et Bonum convertuntur”. Come a dire, solo la Realtà/Verità fonda il Bonum, cioè il presente/futuro possibile.