Auschwitz

Lui, Heiner Rosseck, è sopravvissuto ad Auschwitz. Lei, Lena, è una giovane traduttrice. Si incontrano per caso, in un torrido venerdì d’estate, nel tribunale di Francoforte. Lui è là per testimoniare al processo contro i crimini nazisti, è così provato che sta per scivolare a terra, ma lei lo sostiene. Il modo in cui si incontrano diventa anche la cifra della loro storia d’amore: tocca a Lena scacciare le ombre del passato, colmare la distanza che separa Heiner dal mondo. Lui è alle prese con un tormento profondo: come fare a raccontare la notte buia che ha vissuto, una notte così difficile da comprendere a fondo per chi non c’era, e insieme come fare a medicare tutto il dolore che quell’esperienza ha lasciato, e che continua a consumarlo. Monica Held, giornalista di Amburgo, premiata per i suoi articoli e per il suo impegno politico, ne «La notte più buia» (Neri Pozza) raccoglie e reinterpreta le testimonianze raccolte dai sopravvissuti dei campi di sterminio, offrendone un’interpretazione originale, emozionante e forte, in cui si intrecciano amore e memoria, in un percorso di lenta, faticosa liberazione.

Come ha incontrato i personaggi di Lena e Heiner?

«Una parte della storia che racconto si è svolta nella realtà e una parte nella mia testa. Un giorno ho letto sul giornale che era stata fondata l’associazione dei sopravvissuti di Auschwitz e dei loro amici. Facevo la giornalista radiofonica e ho contattato il fondatore per intervistarlo. Lui ha accettato subito ma una volta arrivata a casa sua io ci ho messo mezz’ora prima di riuscire a suonare il campanello, perché non sapevo come comportarmi, che domande fargli. Poi ho deciso di osare. Lui mi ha accolto con molta cordialità e mi ha offerto una fetta di torta alle prugne: ha detto che il suo sapore si accordava bene ai racconti del lager. Poi ho visto il vasetto pieno di cenere di cui parlo nel libro. Mi ha chiesto cosa pensavo che fosse e io non ne avevo idea, mi sembrava sabbia. E invece no, era cenere delle ossa degli internati di Auschwitz. Mi ha detto che l’avrebbe portata con sé nella tomba. Poi mi ha raccontato tanti altri aneddoti. E ho ascoltato in seguito molte altre storie simili da altri sopravvissuti di Auschwitz, anche se non le stesse. Poi le ho rielaborate a modo mio. Le storie di tre, quattro persone sono confluite in un solo personaggio».

Lei racconta le storie di Auschwitz alla luce di quello che è successo dopo. Perché?

«Ho scelto di affrontare l’argomento a partire da ciò che è accaduto ai sopravvissuti perché mi sono resa conto di quanto potesse essere drammatico rielaborare questa esperienza. Proprio per sottolineare questo aspetto ho scelto di parlare della relazione tra una persona che aveva vissuto l’orrore del lager e una che invece la conosceva soltanto attraverso il racconto. Lena cerca di vivere il rapporto alla pari con Heiner senza avere consapevolezza di che cosa possa essere stato davvero stare ad Auschwitz. Heiner da parte sua percepisce in modo molto forte la distanza tra la sua percezione della realtà e quella degli altri che non hanno idea di che cosa lui ha passato. È una condizione difficile che può capitare di sperimentare anche in modi diversi: succede anche agli scrittori, quando sperimentano la distanza tra il mondo che hanno in testa e la realtà in cui si trovano a vivere».

Come si fa a superare un’esperienza come quella del lager?

«È possibile superare il dolore ma bisogna trovare un metodo: ognuno aveva trovato il suo. Per qualcuno può essere raccontare, per qualcun altro scrivere. C’è chi preferisce portare la propria testimonianza nelle scuole e chi invece non ce la fa e si chiude nel silenzio. Questa è la condizione peggiore, terribile anche per le persone che stanno intorno, perché tutti intuiscono che qualcosa non va. Credo che la rimozione funzioni solo per i carnefici: se si guardano gli atti dei processi si vede che loro non trascorrono notti insonni, anche se non capisco come facciano».

Qual è il valore della memoria e del racconto?

«Il valore di questi ricordi sta proprio nel fatto che non bisogna dimenticare, anche se le storie sono terribili. Ma questo vale per tutto, non solo per Auschwitz. Per questo ho scritto il libro. Bisogna trovare un modo per raccontare di nuovo queste storie in modo diverso, ed è quello che ho cercato di fare. La narrazione letteraria è molto più vivace, più forte e coinvolgente dei libri di storia».

L’antisemitismo non è finito, purtroppo. La Germania ha fatto i conti con il suo passato, secondo lei?

«In parte la Germania ha rielaborato questo passato. Questo però non vuol dire che l’antisemitismo non esista ancora. Ovunque, non solo in Germania, dove forse la gente è stata maggiormente sensibilizzata a questo argomento. Certo, ogni giorno si leggono ancora notizie di minacce, offese, perfino profanazioni delle tombe degli ebrei, e questo è un segno evidente che l’antisemitismo purtroppo non è finito. Proprio di fronte a questo clima si comprende come sia importante tenere viva la memoria, e non smettere mai di raccontare».