Diventare migliori: Luigi Calabresi e il senso di questi 50 anni. La vicenda collettiva e il cammino familiare

Mario Calabresi con la madre Gemma al Festival "Migliori di così" a Nembro

Erano le 9 e 15 di mercoledì 17 maggio. Due colpi sparati alle spalle mettono fine alla vita del trentaduenne commissario di polizia Luigi Calabresi mentre si sta avvicinando alla sua auto, parcheggiata in strada, non lontano da casa, nel centro di Milano.

La sua colpa, secondo i militanti di Lotta Continua, era quella di aver provocato la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto da una finestra del commissariato di polizia qualche tempo prima in circostanze misteriose.

Era il 1972: un tempo lontano dal nostro. Cinquant’anni ci separano da quel fatto di cronaca che ha segnato un’epoca difficile della storia italiana: dopo Calabresi altre persone, circa cinquecento, sono rimaste vittime della violenza ideologica nei cosiddetti “anni di piombo”.

Di quel tempo rimane poco oggi: non ne esistono più le ideologie, in Italia è scomparso il timore di venire aggrediti a causa della propria appartenenza politica o della professione che si svolge, non raccontano più rapimenti come quello ai danni dell’onorevole Aldo Moro, sono solamente un ricordo sbiadito le manifestazioni di piazza con studenti e operai che inneggiano alla rivoluzione.

Dalla cronaca alla memoria collettiva, perché i giovani sappiano

Eppure, il grave fatto di Milano stenta a diventare storia nazionale perché “continua a rimanere prigioniero della cronaca”. Lo spiega Mario, il figlio giornalista e scrittore del commissario, durante l’evento organizzato per il 50esimo anniversario della morte del padre.

Presso il Teatro Gerolamo, a pochi passi dal Duomo e vicinissimo a piazza Fontana, dove tutta questa vicenda ha avuto il suo inizio, sono intervenuti la Ministra della Giustizia Marta Cartabia e lo storico Paolo Mieli.

Il tentativo che si sta facendo sul palco del piccolo e prezioso teatro milanese è quello di consegnare alla memoria collettiva un fatto non più oggetto di dibattito e di discussione: Luigi Calabresi, persona onesta e perbene, ha trovato la morte a causa di una versione malata della lotta politica.

Il mondo culturale e politico del tempo, insieme a una parte cospicua dell’opinione pubblica condizionata da campagne di stampa che hanno alimentato odio e disinformazione, ha tollerato quella vicenda con troppa facilità e accettato che la giustizia facesse il suo corso con eccessiva lentezza e in modo poco efficace.

Ma oggi siamo in grado di giudicare quella pagina di storia con chiarezza: i fatti sono noti; le persone coinvolte, ormai anziane e malate, sono state condannate; l’Italia ha preso le distanze dagli estremismi e ha scelto la democrazia e la via del dibattito civile: “il nostro Paese è migliore” – dice Mario. Quegli avvenimenti possono ora diventare una memoria collettiva “che ci permetta di far sì che anche i giovani sappiano” – aggiunge Paolo, il secondo genito di Calabresi – “capiscano la storia e non commettano gli stessi errori”.

“Un uomo onesto, ricco di valori, che amava lavoro e famiglia”

L’incontro del 17 maggio 2022 a Milano non è solo il tentativo di voltare pagina nel grande libro della storia nazionale. Per la famiglia è questa l’occasione per affermare che d’ora in poi il dolore sarà finalmente celebrato in privato. Dopo anni di lotte, processi, dibattiti, incomprensioni, dichiarazioni e testi pubblicati è finalmente arrivato il tempo nel quale si è riportata la luce della verità su questa vicenda.

Ascolta “Episodio 8: La memoria ha le gambe” su Spreaker.

Gemma, la vedova afferma: “Oggi il Paese guarda a Luigi Calabresi come ad un uomo onesto, buono, ricco di valori, che amava il suo lavoro e la sua famiglia”. Con soddisfazione riconosce di aver raggiunto insieme ai propri figli l’obiettivo di aver riabilitato la figura del marito, anche grazie al comportamento tenuto in tutti questi anni, di grande dignità e mitezza. 

La vicenda storica contiene un percorso personale, duro e ricco allo stesso tempo. Sul palco del teatro va in scena allora la testimonianza di vita e di fede di una donna minuta solo all’apparenza. Gemma Capra, vedova Calabresi e Milite, afferma con determinazione: “Questo cammino che ho fatto, credo, mi abbia reso una persona migliore”.

I passi che portano al perdono e alla serenità

Solo venticinquenne si è trovata ad affrontare il disprezzo della piazza, le chiacchere della gente, la responsabilità di crescere tre figli ancora piccolissimi e a portare il peso di un dolore opprimente. Nel momento più duro ha colto l’aiuto di tanti e ha avvertito il sostegno di Dio. Lo racconta lei stessa affermando che i passi che l’hanno portata ad una fede sincera e poi al perdono hanno dato un senso alla vita e hanno condotto alla serenità.

“Ho scelto di fare la pace con la vita e con gli altri.

Si può, anche dopo un dolore lacerante, amare ancora la vita.

Si può, anche dopo il tradimento e la calunnia, credere ancora negli altri.

Si può cambiare giudizio sulle persone che vedevi solo come il male.

E si può essere ancora felici”.

La libertà interiore e la passione per la vita di questa donna sono la migliore risposta alla violenza e all’odio esplosi con la bomba di piazza Fontana e nei tanti fatti di sangue degli anni ’70. La vera rivoluzione che cambia il mondo e lo rende più giusto l’ha fatta lei, conquistando il perdono e riconoscendo che ogni uomo non è solo il suo errore. L’unità d’intenti che riesce a imporre i propri ideali non marcia in una piazza chiassosa dietro slogan urlati ma all’interno di una famiglia che custodisce l’amorevolezza e tenta ostinatamente di far sbocciare un sorriso sincero sul volto dei propri figli.

“È stato, ed è, un viaggio di amore e di libertà. 

Ho fatto tute le salite: ho le gambe forti, e il cuore pieno. 

Ho dato tanto, ho ricevuto tanto. 

Grazie.”

Da La crepa e la luce, Gemma Calabresi Milite, Mondadori