Prete: crisi e altro

«Noi siamo travolti dal nostro fare, continuiamo a fare incontri, organizzare attività. Più una parrocchia organizza e più è apprezzata. Mi sembra che anche le Unità pastorali vadano in questo senso. Abbiamo paura di perdere i clienti, siamo ancora in un regime di cristianità. Io nel mio piccolo sono contento di poter vivere ancora una Chiesa di relazioni. La vita di parroco è bella da questo punto di vista. Ho sempre incontrato comunità che mi hanno plasmato e mi hanno fatto gustare il mio essere prete. La fede è una relazione e passa dentro le nostre relazioni quotidiane ma sostenuta da una preghiera intensa e continua».

Cosi mi scrive un amico prete dopo aver letto l’articolo comparso settimana scorsa sul Santalessandro (lo trovate qui).

In questi giorni, con mia grande sorpresa, a commento del pezzo, ho ricevuto ventisei mail, diciotto di preti, tre di ex preti, sette di laici. Alcune sono state sollecitate da me; le più, invece, spontanee. A sottolineare che il tema – la crisi del prete e la forma della Chiesa – certo complesso, sta molto a cuore.

Me lo scrivono in tanti: nonostante le dichiarazioni in proposito, mancano spazi ecclesiali per un confronto autentico, non paludato. Cosi un prete: «Vedo una certa forma di paura da parte anche dei nostri responsabili ecclesiali nel prendere in mano con serietà e naturalezza la questione». E un altro: «E’ vero: rischiamo di lasciare che siano i nostalgici a prevalere o a fare più rumore. Dovremmo sederci e ragionare di più sulla Chiesa di domani. Laici e preti insieme, o meglio semplicemente cristiani, fermarsi e ripartire con uno sguardo nuovo sulla Chiesa e sul mondo. Il vangelo poi lo sappiamo sta già girando tra noi! Che i cristiani almeno lo riconoscano!».

UN’AGENDA PER IL PRESENTE

Vorrei richiamare per sommi capi, la bellezza e il valore di questo sorprendente dialogo, riportando in parte alcuni commenti pervenuti dai sacerdoti attraverso i temi maggiormente emersi. La volta prossima farò lo stesso con le risposte dei laici.

L’umanità del prete. «La mia esperienza di malattia mi ha rinforzato su questo: la vita personale, la pastorale sono vere se sgorgano dalla relazione col Signore, sostenuta dalle relazioni con le persone che ogni giorno incontriamo. È sempre bello sperimentare in tanti incontri le presenza del Signore che ti sta accompagnando. E questo è il difficile dell’incontro tra preti: ci nascondiamo dietro il ruolo, restando in una posizione di funzionari. E’ difficile far emergere la nostra umanità e quindi scoprire che dentro questa nostra umanità il Signore ci sta parlando e accompagnando. Anche la nostra Chiesa di Bergamo ha forse più bisogno di relazioni e meno di strutture».

«Penso che mettere l’accento sul potere, e dunque sulla funzione, è mettere tra parentesi l’umanità del prete, il suo bisogno di affetto e di compagnia. Personalmente non mi sono mai sentito un eroe. Se posso sentirmi in colpa per qualcosa non è certo per aver ceduto all’umanità che mi costituisce, nel bene e nel male».

La solitudine«Noi preti oggi siamo individualisti perchè troppo soli».

«Mi fermo qualche volta a ragionare sulla preoccupante tendenza – ahimé sempre più diffusa e pervasiva – da parte di preti giovani di rinchiudersi in forme identitarie rigide sia per non affrontare a pieno viso la propria fragilità interiore ed i propri vissuti irrisolti sia per illudersi di preservare in questo modo una sacralità della propria figura e del proprio ruolo».

«Quante volte mi sono sentito solo! Usiamo parole che valgono per gli altri, non per noi. Ma chi ascolta le nostre fatiche? Con chi riusciamo veramente ad aprire il nostro cuore?».

 La corresponsabilità dei laici e dei preti. «Occorre insistere di più. Io, per esempio, sto cullando il sogno di trasformare la canonica in comunità pastorale: un prete e qualche laico, una famiglia, qualche religiosa… che vivano insieme e condividano il carisma della dedizione alla Parrocchia. Boh, speriamo che qualcosa accada. Non conosco don Zanotti (l’autore dell’articolo citato nel nostro articolo della settimana scorsa. Ndr), ma non vorrei nemmeno conoscerlo: mi inquieta».

«Non mi piacerebbe che qualcuno identificasse la mia comunità parrocchiale solo con il parroco, così come non mi piace chi identifica la Chiesa solo con il Papa. Io preferisco “essere uno tra gli altri”, uno che fa parte del popolo di Dio a beneficio del quale devo usare il mio dono, il mio ministero. Mi piace S. Agostino quando dice: con voi sono cristiano (e questo è motivo di gioia), per voi sono vescovo (e questo è per me motivo di timore e di responsabilità)».

«Ogni soluzione va cercata insieme, preti e laici, con più disponibilità, senso di responsabilità e fiducia da parte di entrambi. Deponendo ogni pretesa di potere e ogni permalosità, per assumere uno stile di servizio e una maggiore libertà nel confronto delle tradizione umane ostinate sul “si è sempre fatto così”».

Il confronto con la modernità. «Mi spaventa l’incapacità di noi preti di coglierne gli aspetti positivi e non solo problematici, pensando sempre che la “post-modernità” rappresenti una minaccia, qualcosa di diverso – e di ostile – rispetto alla nostra stessa forma mentis, al nostro percorso formativo, alla nostra umanità e al compito di restituire concretezza e contemporaneità reale alla parola evangelica. Se non parliamo all’uomo di oggi del Vangelo, di Gesù, di Chiesa e di umanità a partire dal suo/nostro linguaggio, stando dentro il suo/nostro vissuto, assumendo le sue/nostre domande e le sue/nostre sfide dove pensiamo di andare?! Continueremo a creare una cittadella armata di tradizionalismi e dogmatismi sterili, quel mondo separato proprio della religione ma ben distante dalla vita del passeggiatore di Nazareth e dal suo continuo sogno evangelico di incarnazione!».

«Io avrei scritto anche che quelli di Marsiglia hanno avuto come vescovo Etchegaray, che non vestiva la talare, che le mani per benedire le alzava anche lui ecc ecc…  ma chi non ha orecchi non intende. Il loro problema è Francesco Papa, oggi, per il fatto che sta finalmente traducendo lo spirito del Concilio nei gesti dell’essenzialità della religio per far affiorare la fede: dunque è il nemico. Quanto ai preti vorrei che sentissero la loro povertà vera: se no, come sta capitando, sono infedeli seppure non andandosene.

 Oltre i ruoli. La questione della fede. «Il disagio nasce anche dal fatto di essere chiamati a fare il manager di comunità indebitate fino al collo e appesantite da strutture complesse: i laici certamente collaborano ma la responsabilità finale è sempre del parroco, che è diventato prete per fare altro ed è costretto ad occuparsi di risanamento di bilanci in tempo di crisi economica».

«Io penso che fondamentalmente le crisi siano “crisi di fede” o se preferiamo crisi di scarso innamoramento nei confronti di Cristo e del suo vangelo. Se non ci si lascia “sedurre”, si rimane presto senza fuoco e senza passione».