Don Gigi Ciotti, 70 anni di fedeltà al Vangelo e alla Costituzione

Foto: don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di “Libera”

“Quando padre Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino, nel 1972, mi ordinò sacerdote, mi affidò come parrocchia la strada. E non mi mandò ad insegnare qualcosa, ma ad imparare che come Chiesa dobbiamo riconoscere il volto di Dio, a volte scomodo, in ogni persona. La gioia del mio sacerdozio, del mio servizio, sta in una doppia fedeltà quotidiana a Dio e alle persone. La strada richiede fedeltà e lealtà nel leggere le storie degli uomini e delle donne in carne e ossa, i loro cambiamenti, per poter rispondere ai loro bisogni e mi ha insegnato che è possibile cercare Dio per incontrare le persone, ma è anche possibile cercare le persone per incontrare Dio, facendosi stupire dal Dio che passa attraverso la vita degli altri, che si nasconde e si fa trovare dove meno pensi, anche in luoghi e volti scomodi e provocanti”.

Cosi si presenta don Luigi Ciotti, uno dei preti più famosi del nostro Paese che, nei giorni scorsi, ha compiuto settant’anni. Molti dei quali vissuti in una doppia fedeltà: al Vangelo e alla Costituzione. Ce lo ha ricordato,qualche tempo fa, quando lo abbiamo invitato a Bergamo: “Faccio fatica a distinguere le due dimensioni. Ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra e i miei riferimenti sono innanzitutto il Vangelo e poi la Costituzione. Nel Vangelo c’è molta “politica”, laddove si denunciano i soprusi, le ingiustizie, le ipocrisie. E la Costituzione ha uno spirito evangelico quando afferma la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone.”

UNA TESTIMONIANZA SCOMODA

Il nome di don Gigi, nato in un paese del Cadore, è legato alla fondazione, nel lontano 1965, del Gruppo Abele di Torino, una delle prime realtà che allora sostenevano e accompagnavano i giovani in situazione di fatica, di dipendenza e di disagio. Ma anche, trent’anni dopo, alla nascita di “Libera”, un coordinamento composto da migliaia di associazioni, gruppi, scuole e realtà territoriali di base che si battono contro le mafie e per la legalità. Grazie a “Libera”, il dogma culturale della lotta alla mafia da non delegare a poliziotti e magistrati – lasciandoli soli – è diventato realtà. Decisiva è stata la destinazione a fini socialmente utili dei beni confiscati ai mafiosi, ottenuta con una legge (la 109/96) voluta da “Libera” e da “Libera” “imposta” con il traino irresistibile di un milione di firme raccolte. Così è nata l’antimafia sociale. L’antimafia che paga in termini di lavoro e recupero di diritti. Che materializza la legalità come bene comune. Che fa dell’Italia un paese non solo di mafia ma anche dell’antimafia. Grazie a “Libera” l’educazione alla legalità democratica, l’impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura sono diventati percorsi di tanti, soprattutto giovani.
Per queste sue scelte, Don Gigi vive da trent’anni sotto scorta. Ricordo bene la prima volta, alla fine degli anni ottanta, che andai a Torino ad intervistarlo: prima di salire nella sede del gruppo Abele fummo preceduti da alcuni poliziotti che salirono a “bonificare” il luogo. Al termine della lunga chiacchierata, prese il telefono e chiamò gli amici presso i quali quella notte avrebbe dormito. Solo quella notte, perché ogni giorno, per ragioni di sicurezza, il posto cambiava. Ci salutammo e lo vidi andare via in macchina preceduto e seguito da automobili della scorta. Mi è capitato più volte di chiedergli la ragione del suo impegno. Sempre mi ha risposto cosi: “Credo in un Dio che vuole la felicità dell’uomo. Che chiede di batterci per tutto quanto rende la vita più umana e autentica e di lottare contro tutto ciò che la inquina e la rende inautentica. Un Dio che ci invita a guardare la realtà con gli occhi di coloro che fanno più fatica. Credo nella forza delle parole del profeta Isaia: ‘Non mi terrò in silenzio, finché non sorga come stella la giustizia e la verità come lampada’ e nel coraggio della testimonianza di don Peppe Diana, massacrato dalla camorra: ‘Saliamo sui tetti, per riaffermare la parola, perché bisogna dire, senza oltraggiare e diffamare, quando si sa’. È in gioco la qualità della mia fede ma anche la dignità del mio essere cittadino. I continui tagli allo Stato sociale, la limitazione dell’azione della magistratura, la politica dei condoni alimentano le mafie che si crogiolano nella crisi, nella paura, nel disorientamento, nelle compiacenze. Aveva ragione Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, quando diceva a Giorgio Bocca, in un’intervista a ‘La Repubblica‘: “Lo Stato da’ come diritto ciò che le mafie danno come favore.”

NON SOLO CREDENTI MA ANCHE CREDIBILI 

Da sempre credente appassionato, don Gigi è stato a lungo guardato con diffidenza da una parte del mondo ecclesiale. Per questo, molti di noi lo scorso anno, il 21 marzo 2014, si sono commossi quando nel corso della veglia per l’annuale giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia, papa Francesco lo ha abbracciato e tenuto a lungo per mano. Un riconoscimento pubblico per un uomo che ha giocato la sua vita per il Vangelo. Don Gigi me lo aveva detto bene nell’intervista che gli feci: “Credo che la Chiesa e i cristiani siano chiamati a fare la loro parte, saldando la testimonianza cristiana con la responsabilità civile. Significa rifiutare silenzi, forme di compromesso, complicità. A me piace la Chiesa dei don Puglisi, la Chiesa che interferisce, che interviene per illuminare le coscienze, per denunciare gli affari criminali e le ingiustizie sociali. Che ha fame del cielo e insieme non è lontana mai dalla terra, dagli impegni e dalle responsabilità. Perché non basta dire ‘Signore, Signore’, ma bisogna sapersi misurare con la quotidianità da costruire. Che testimonia, nelle parole e nei fatti, l’assoluta incompatibilità del Vangelo con il crimine e la violenza. Che è capace di farsi coscienza critica ed essere testimone del senso vero della giustizia. Due cose il cristiano non può fare: obbedire all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla violenza, e diventare complici direttamente o per indifferenza, rassegnazione, poco coraggio. Quando giro per l’Italia e incontro giovani nelle parrocchie e nei gruppi amo spesso ricordare loro le parole che il giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia il 21 settembre del 1990, scrisse sul suo diario: ‘Alla fine non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili‘. Lo aveva capito il mio amico don Tonino Bello che, da Vescovo, aveva aperto le porte dell’Episcopio per ospitare persone in difficoltà. Un giorno, alzando il tono della voce, disse ai suoi preti e alla sua chiesa: “i cristiani non possono dimenticare che la Parola non si annuncia con le parole soltanto, si annuncia con la vita, con i gesti, con i fatti”. Solo così, la Chiesa e i cristiani saranno veramente credibili”.