Blade Runner 2049: un noir visionario, la teologia di un mito. Ragiona sull’uomo e sul futuro

“Era sera tardi quando K. arrivò”: inizia così, con uno degli incipit più formidabili della letteratura mondiale, “Il Castello”, romanzo incompiuto di Franz Kafka. Il protagonista viene identificato semplicemente con quell’iniziale, quel “K.” che è, ovviamente, anche l’iniziale del cognome dell’autore. Al di là dell’immediatezza della lettura, del fatto che sia immediatamente riconoscibile e forse anche troppo “facile”, dato che Ryan Gosling il protagonista di questo “ Blade Runner 2049” è “l’agente K.”, fare un parallelo tra le due opere, non di meno ci sembra che si debba partire proprio da qui, dalla prima e più immediata “citazione” letteraria delle diverse che poi compariranno nel film, per addentrarsi nell’universo “kafkiano”, appunto, del film di Denis Villeneuve (già autore dell’ottimo “Arrival”). Cose da fare e da non fare dopo aver visto “Blade Runner 2049”: la più importante è quella di non fare il confronto con il precedente lavoro di Ridley Scott ma, se mai, di mettere le cose nella giusta prospettiva ricordando che “ Blade Runner” di Ridley Scott è uscito nel 1982 ma era ambientato nel 2019, mentre questo sequel esce nel 2017 ma, come dice il titolo, è ambientato nel 2049, il tutto basato sul romanzo dello scrittore statunitense Philip K. Dick (ancora una K), “Il cacciatore di androidi” che in originale suonava come “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, pubblicato nel 1968 e che il suo autore, nato nel 1928 e morto proprio nel 1982 non fece in tempo a vedere sullo schermo. Sulla complessità dell’opera dello scrittore americano rimandiamo alla letteratura specializzata, ma resta il fatto che si debba proprio alla sua penna l’immaginifica invenzione di un personaggio come quello di Deckardt (interpretato da Harrison Ford) che, al di là delle a volte notevoli differenze tra la pagina scritta (dove è un personaggio più grigio) e la versione filmica, rimanda senza subbio alcuno alla classica figura dell’investigatore disilluso dei romanzi di Raymond Chandler (Philip Marlowe) o di Dashiell Hammet (Sam Spade) e l’ambientazione, quella tipica da film noir semplicemente traslata in una Los Angeles post apocalittica in luogo di quella in bianco e nero tramandataci dal cinema degli anni Quaranta. Tornando alle cose da non fare, ci sarà sicuramente quello di voler capire tutto a tutti i costi. A questo proposito ci torna utile la prefazione di Sergio Quinzio all’edizione Feltrinelli del capolavoro kafkiano, laddove scrive: “Se non bastasse Kafka a sviarci nei suoi infiniti labirinti, ci pensano gli interpreti, moltiplicando le interpretazioni al di là di ogni parola da interpretare. Inseguire i personaggi, i fatti narrati, le metafore, le allusioni, i simboli lascia sempre trasparire l’intenzione di ricomporli in un significato unitario, come le tessere di un mosaico. Ma Kafka non si lascia ridurre a sistema…”. Così come non si lascia “ridurre a sistema”, l’universo del film di Villeneuve e del suo sceneggiatore Hampton Fancher (già autore del copione del primo “Blade Runner”), ma invita lo spettatore a immergersi completamente nella sua materia, a tratti ipnotica, abbandonandosi alla visione (ecco, invece, una delle cose assolutamente da fare), dei suoi 160 minuti di durata che non sono per niente “noiosi” come si è letto, ma sono funzionali ad un tipo di narrazione che sposa una certa poetica post tarkovskiana con quella di una rilettura del postmoderno che già operava Ridley Scott nella sua versione e che oggi questo “Blade Runner 2049” sposta ancora più avanti con la sua impostazione post-postmoderna. Basti vedere la sequenza veramente magnifica nella quale finalmente il “nuovo” blade runner, interpretato da un Ryan Gosling assolutamente nella parte, trova finalmente il nascondiglio dove si è rifugiato il “vecchio” blade runner, Rick Deckardt (ancora interpretato da Harrison Ford), in una Las Vegas post-apocalittica dove, tremolanti ed evanescenti, si materializzano per pochi istanti gli ologrammi di Marilyn, di Elvis e di Frank Sinatra, simulacri di un tempo che è esistito ma che può vivere solo come archivio, come memoria archeologica, come ricordo “innestato” come quelli che vengono impiantati ai replicanti. E qui si “innesta”, appunto, l’altro fenomenale rimando letterario presente nel film (il terzo sarà a “L’isola del tesoro” di Robert L. Stevenson), quello a “Pale Fire” (Fuoco pallido) di Vladimir Nabokov, nel quale l’autore di “Lolita” mescola arditamente le carte narrative e, in pieno rigoglio postmodernista, confonde personaggi e ricordi, lasciando nel lettore il dubbio a chi appartengano veramente. Ancora una volta, infatti, come nel film del 1982, si tratta di dare la caccia e “ritirare” i vecchi modelli, i Nexus 6, di replicanti ancora in circolazione essendo ormai obsoleti da tempo e da tempo rimpiazzati con quelli di nuovissima generazione. Ancora una volta succede che gli androidi finiscono con l’essere più umani degli umani. Ma il film si spinge ancora più lontano, più in profondità, negli abissi del rimescolamento umano-non umano, come ha notato Fabrizio Tassi su Cineforum.it: “Non esisteva altro modo per ri-vedere quel mondo, per abitarlo di nuovo. Un replicante di nuova generazione che lo porta più in alto e più lontano, molto vicino al simulacro di realtà in cui viviamo. Che addirittura contiene “Blade Runner”, come un corpo perfetto, sintetico, post-umano può contenere la sua anima, l’identità più profonda. Quello era il mito, questa è la sua teologia. Un nuovo modello di replicante, che ha il compito di eliminare quelli vecchi, “difettosi”, troppo umani, s’imbatte in un miracolo. C’è un Figlio che rischia di sconvolgere l’ordine del mondo, nato da una madre che non poteva generare, inseguito da un aspirante padre-profeta che genera angeli sintetici, abbandonato per amore dal padre vero. Biblico e noir, a suo agio nel vuoto e nel silenzio più che nell’azione, capace di generare immagini e visioni di una bellezza e una complessità che in alcuni momenti tolgono il fiato”. Abbandonarsi, dicevamo, abbandonarsi alla visione di un film che ne contiene tanti altri, che gioca con le memorie e le macerie di una Storia che, dopo un grande black-out, è stata azzerata eppure è ancora lì tenacemente innestata nella memoria cinematografica. Come se la doppia elica del Dna si fosse srotolata e dalla combinazione delle quattro basi – G-T-C-A – si fosse passati a quella binaria di una sequenza formata dalla funzione dicotomica di “0-1”. Per questo non solo non possono passare inosservati i camei di Harrison Ford, Sean Young e Edward James Olmos, protagonisti del primo “ Blade Runner”, perché sono degli inserti, degli innesti (ancora una volta) , di arcaica bellezza persi e ritrovati “… come lacrime nella pioggia”, testimoni di un’altra fantascienza, che allora sembrava pazzescamente innovativa (e lo era), che: “ha introdotto – come è stato scritto – una nuova stagione della storia del cinema, chiudendo il periodo moderno e aprendo al cosiddetto e tanto discusso postmoderno”. Personaggi che hanno la stessa funzione degli oggetti (pensiamo al rasoio) di “Fahrenheit 451” di François Truffaut che avevano il compito di ricordare a Montag, il protagonista, le vestigia di un mondo che fu e di rimpiangerne la sua rozza poesia. Paradossalmente è stato molto più innovativo il film di Scott del 1982 di quanto potrà esserlo questo, negli sviluppi del cinema di fantascienza, forse semplicemente, perché questo Blade Runner 2049 non è già più un film di fantascienza ma qualcosa d’altro. Un film visionario che “si pensa” mentre si svolge, che ragiona contemporaneamente su quello che siamo, su quello che siamo stati e su quello che saremo. Un capolavoro? No. Un film importante: forse di un capolavoro non c’era bisogno.