Arte e crimine, dubbi e indizi. In un film il mistero del quadro del Caravaggio rubato 50 anni fa

Pioveva, quella notte, ed è come se quell’acqua abbia cancellato per sempre ogni traccia. Cinquant’anni dopo, però, un mistero che intreccia arte e crimine è tornato attuale, con la soluzione forse più vicina (o meno distante, a seconda dei punti di vista), e anche qualche richiamo a Bergamo.

In primis perché tutto è nato dal genio di Michelangelo Merisi, il Caravaggio. È la storia della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, quadro sparito nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969 a Palermo, dall’oratorio di San Lorenzo. Più precisamente: non sparito, ma rubato. Da Cosa nostra, la mafia siciliana.

Era imponente, quel quadro. Quasi tre metri per due: al centro c’è la Madonna, poco sotto c’è il Bambino, di spalle San Giuseppe, in alto un angelo. Quel furto, apparso all’inizio un po’ rudimentale, messo a segno da «pesci piccoli», è diventato presto un caso internazionale: l’Fbi, per esempio, lo inserisce tra i dieci più importanti furti d’arte della storia.

Una storia da romanzo, meglio da film: nei mesi scorsi l’ha riportata a galla proprio una pellicola, Una storia senza nome, del regista Roberto Andò, con protagonisti Micaela Ramazzotti, Renato Carpentieri e Alessandro Gasmann. Presentato alla Mostra del cinema di Venezia, il film affianca una ricostruzione storica dettagliata – basata sullo studio profondo di documenti – a una trama coinvolgente.

Uno sceneggiatore un po’ viveur (interpretato da Gassman) riceve una sceneggiatura intrigante dalla sua brillante ma timida ghostwriter (la Ramazzotti), venuta a conoscenza di questa storia da un ex agente dei servizi segreti (Renato Carpentieri) dai mille misteri. È pungente, quel copione, e subito fa breccia, tanto che viene ingaggiato un regista di fama internazionale. Ma qui iniziano i problemi: la casa di produzione è in realtà nell’orbita della mafia, e i boss capiscono che chi ha scritto quel copione sa qualcosa di troppo e va messo a tacere. Iniziano vendette trasversali, intrecci da spy-story, colpi di scena, e a far da sfondo una trattativa tra governo e mafia che starebbe per portare alla restituzione del quadro.

 

Finzione e realtà. E Bergamo

Le basi su cui poggia il lavoro di Roberto Andò, regista siciliano, fine intellettuale, vecchio amico di Leonardo Sciacia (che al furto dedicò anche uno scritto), è soprattutto l’apposita relazione sulla Natività approvata lo scorso febbraio dalla Commissione parlamentare antimafia, che proprio un mese fa è stata anche al centro di un convegno organizzato dal Dicastero vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale.

In 24 pagine, l’Antimafia ha riassunto cinquant’anni di indizi, prove, piste. Cosa ne è oggi, di quel quadro? Fondamentali sono le dichiarazioni di Gaetano Grado, pentito di Cosa nostra, che dipinge uno scenario ritenuto «altamente attendibile». Il quadro sarebbe stato rubato da «ladruncoli» orbitanti attorno al mondo delle cosche, poi consegnato a Stefano Bontade, uno dei più importanti boss di Cosa nostra, che a sua volta lo passò a Gaetano Badalamenti, altro padrino giunto ai vertici della mafia siciliana.

Badalamenti era in contatto con un trafficante svizzero di Lugano, racconta Grado, che attraverso la Commissione antimafia ha anche saputo riconoscere il mercante in una foto. Il trafficante elvetico sarebbe così sceso in Sicilia per visionare il quadro: «Gli abbiamo dato una sedia. Gli sono spuntate le lacrime (quando ha visto il quadro, ndr), era appassionato proprio», sono le parole che Badalamenti disse, riportate da Grado. L’affare andò così in porto, la Natività raggiunse la Svizzera probabilmente in camion, e là accadde l’irreparabile: il quadro sarebbe stato diviso in quattro parti e venduto ad altrettanti collezionisti sul mercato nero.

Il passaggio in Svizzera introduce al possibile legame «di striscio» con Bergamo: a gestire i rapporti tra Cosa nostra e Svizzera in quegli anni c’era Gerlando Alberti, citato sia nella relazione della Commissione antimafia che nei titoli di coda di “Una storia senza nome”. Altro boss di rango di Cosa nostra, Alberti fu arrestato nel 1975 a Rossino di Calolziocorte, comune all’epoca appartenente alla provincia di Bergamo, dove abitava il figlio; proprio a Calolziocorte era arrivato dopo aver «soggiornato» per breve tempo in Svizzera.

Il mistero sulla sorte di quel quadro, cinquant’anni dopo, ancora resiste. «È purtroppo la storia semplice della banalità del male e del potere mafioso – scriveva la Commissione antimafia -, capace di trattare un capolavoro d’arte assoluto come una cassetta di sigarette di contrabbando o una partita di droga, rapidamente trasferito all’estero in cambio di denaro sporco, a beneficio di spregiudicati collezionisti stranieri».