Frate Leone, iscrivi, che qui è perfetta letizia
(Fioretti di San Francesco, VII)
Assisi è uno di quei luoghi che almeno una volta nella vita bisogna visitare. E se ci si reca lì almeno una volta si sente un richiamo che pian piano riconduce lì. Porta sulle strade percorse da san Francesco e santa Chiara. Erano alcuni anni che non tornavo e, ancora una volta, ho compreso quanto questa cittadina abbarbicata sul Monte Subasio sia un posto che fa davvero bene al cuore.
Sono arrivato con il cuore un po’ in subbuglio per i tanti pensieri che la vita quotidiana sempre più esigente porta con sé e mi sono ritrovato a rimettere al centro me, anche solo per un paio di giorni. Passeggiare con la mia famiglia e le coppie che con noi hanno condiviso il cammino verso il matrimonio, ascoltare le guide spiegarci come l’arte si intreccia alla spiritualità, immergermi nella natura fatta di ulivi e terra rossa sono stati ingredienti che mi hanno aiutato a rimettere il mio battito in contatto con l’Altro. E tra le parole che ci sono state rivolte in questo pellegrinaggio (che bello poter ritornare ad utilizzare questo termine dopo tanti mesi!), con il Vangelo che ci suggeriva: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”, ho sentito il bisogno di tornare su uno dei cardini della spiritualità francescana, ovvero la “Perfetta letizia”.
La felicità che emerge dal nostro stato non perfetto
Sono andato a rileggermi il passo dei Fioretti di San Francesco in cui l’Alter Christus, chiacchierando con Leone, suggerisce al compagno di ricercare la felicità profonda nel momento di massimo rifiuto, sofferenza, abbandono. Forse per la prima volta non ho dato retta alla vocina del mio Genitore interiore che mi diceva “significa che devi sopportare tutto e sforzarti di essere felice”. Ho provato a guardare più in profondità. Mi è sembrato di poter intuire che dentro alle mie fatiche quotidiane c’è uno spazio di amore inattaccabile. Un amore che spesso magari copro con le tante cose da fare, le preoccupazioni e le ansie.
Da ciò nasce una gioia, una felicità che emerge da un nostro stato non perfetto, ma proprio per questo sicuramente più vero. Per questo l’ho rinominata “im-perfetta letizia”, non tanto per smentire il grande Santo (non oserei mai!), ma per ricordarmi la relazione tra gioia e imperfezione. L’appello che San Francesco ci invita a fare penso che sia quello di poter riconoscere di essere amati nonostante tutto quello che ci succede. Anzi, le sventure che possono arrivare a turbare il nostro cielo sereno non sono una condanna per espiare qualcosa che abbiamo fatto. Non sono la richiesta di un Dio che presenta il conto e al quale dobbiamo chinare semplicemente il nostro capo. Sono invece l’occasione per ricordarci che niente è perso e che anche nella situazione peggiore possibile possiamo scegliere di avere occhi che colgono l’amore da cui veniamo e verso cui andiamo, e che non ci abbandona mai.