Romano: «Giopì a l’infèren», una lettura satirica del viaggio dantesco in dialetto bergamasco

La Divina Commedia è sicuramente una delle più importanti opere della letteratura italiana conosciuta nel mondo. In occasione dei 700 anni dalla morte del sommo poeta, Dante Alighieri, domenica scorsa, al Teatro della Fondazione Rubini di Romano di Lombardia, è stato presentato il libro Giopì a l’infèren di Giuseppe Cavagnari e trascritto e tradotto da Umberto Zanetti.

«Un’iniziativa che nasce un po’ da lontano, su volontà del museo di rivedere, conoscere, approfondire la figura del tutto particolare della storia della nostra città: Giuseppe Cavagnari», introduce monsignor Tarcisio Tironi, Direttore del Macs di Romano di Lombardia.

Un’opera letteraria satirica ispirata all’inferno dantesco

Giopì a l’infèren è un manoscritto di Giuseppe Cavagnari che è stato prodotto tra la seconda metà degli anni ’20 e gli anni ’30 del Novecento ed è stato regalato all’amico Giacinto Gambirasio. Alla morte di quest’ultimo, Umberto Zanetti, che faceva parte del ducato di Piazza Pontida, racconta monsignor Tironi, «recupera, attraverso il figlio di Giacinto Gambirasio questo manoscritto», arrivando alla pubblicazione nel 2018.

Giopì a l’infèren si presenta come un’inedita opera letteraria satirica dell’inferno dantesco con trentacinque canti strutturati da terzine endecasillabe, a rima incatenata, come i versi delle cantiche di Dante Alighieri. Ma il protagonista non è Dante, è Gioppino, la maschera più conosciuta della tradizione popolare bergamasca.

Copertina libro Giopì a l’infèren di Giuseppe Cavagnari e trascritto e tradotto da Umberto Zanetti

Il libro comincia con un preambolo, dove, racconta il cantastorie bergamasco Luciano Ravasio, «Virgilio appare in sogno a Gioppino che sta leggendo l’Eneide» e, colpito dalla discesa agli inferi di Enea, Virgilio lo invita a compiere un viaggio nell’oltretomba prima che lo faccia Dante. Sarà un’avventura rocambolesca dove Gioppino, ingenuo e spontaneo, metterà a dura prova l’indulgente pazienza di Virgilio.

Al centro il dialetto locale con le sue locuzioni e metafore

All’interno di Giopì a l’infèren il dialetto locale è centrale con le sue interiezioni, locuzioni e metafore tipiche a cui Giuseppe Cavagnari fa ricorso per far emergere la comicità più aperta e grottesca.

Inoltre, aggiunge Luciano Ravasio ,«secondo Zanetti, il Cavagnari scrive Giopì a l’inferen come mediazione fra l’amore incondizionato per uno dei più grandi capolavori letterari e anche riaffermare durante il fascismo, l’inalienabilità dei valori della cultura locale, come riscatto».

Luciano Ravasio e monsignor Tarcisio Tironi alla presentazione del libro Giopì a l’infèren al Teatro G.B. Rubini di Romano di Lombardia

Giuseppe Cavagnari nacque il 7 novembre 1862 da una famiglia di agricoltori a Romano di Lombardia. Rimasto orfano di padre in gioventù, a quindici anni interruppe gli studi per dedicarsi alle letture. Nel contempo, continuò ad occuparsi assiduamente della vita della parrocchia romanese alla quale era stato avviato da don Rinaldo Rossi, grande prevosto di Romano dal 1870 al 1893 e fondatore del 1880 del Collegio di San Defendente.
Il Cavagnari fu amico di Francesco Galbiati (1855-1903) detto Cèco del löt (altro romanese importante) e di Nicolò Rezzana, figura di primo piano nel cattolicesimo bergamasco nell’ultimo ‘800. Il giovane si inserì nel gruppo intellettuale romanese collegato con Milano (Cameroni di Treviglio) e Bergamo (Filippo Meda).

Nel corso della sua vita, seguì il movimento cattolico sociale ed esordì nel giornalismo locale, collaborando con il settimanale Il Campanone e l’Osservatorio Cattolico. Si trasferì a Berna e a Lugano, dove frequentò gli ambienti cattolici, stringendo amicizia con Giuseppe Motta. Rientrato in Italia, a Milano, continuò la sua attività da pubblicista: fondò Il Corriere della Domenica, collaborò con Pro Familia e altre testate cattoliche.

Nel 1889, sposò Anna Maria Nespoli di Credaro dalla quale ebbe otto figli. Un anno dopo, Giuseppe Cavagnari diventò, a Romano di Lombardia amministratore pubblico, fondatore del Piccolo Credito Bergamasco, della Società di mutuo soccorso e consigliere comunale. Ma, con l’avvento del regime fascita, decise di dedicarsi ai foraggi, al bestiame e all’amministrazione delle sue proprietà terriere alternando soggiorni a Credaro, dove sperimentò moderni sistemi di coltivazione della vite e dei cereali.

La passione per la musica e la pittura

Ma non è tutto, dice monsignor Tironi, «nelle pause delle sue attività si dilettava pure di musica e di pittura. Andava a Bergamo per l’impegno in Banca e, dal 1930, anche per incontrarsi con i poeti del Ducato di Piazza Pontida». Ed è in quegli anni che, emerge in Giuseppe Cavagnari una capacità, prosegue monsignor Tironi, «nel produrre in versi poesie dialettali, sia poesie, sia testi più impegnativi».

Tra gli scritti del Cavagnari ci sono: Il re dei paesani (1863 – undici racconti), in hac lacrimarum valle  (1887), Il romanzo dei settimini (1889), Le vittime della terra (1891), Spazzacamino (1892 – novelle ticinesi), Argalfa, Lo spettro del re Erode (1893), Le vittime della terra (1894 – nuova edizione), Le grucce della regina. La viola di Carlo I (1886 – novelle) e le evasioni dialettali a firma Magatì Giopì a l’Infèren e due versioni de Aminta di Tasso che sono state donate all’amico Giacinto Gambirasio.

Giuseppe Cavagnari muore il 7 novembre 1940, nel giorno del suo settantottesimo compleanno.

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