Diario di viaggio in Eritrea sulle tracce di monsignor Luca Milesi. Un villaggio segnato dalla guerra

L'ospedale di Mogolò

Venerdì 1° marzo: arrivo a Barentù

Qualche chilometro fuori dal villaggio un arco di legno che sormonta la strada ci avverte che stiamo entrando nel distretto di Barentù. Sullo sfondo, verso occidente, noto quattro montagne alte, con cima piatta, sono le ambe.

Ad un tratto ci imbattiamo in un ammasso di rottami di camion e carri armati, anneriti dal fumo, triste ricordo della guerra e delle sue vittime. Poi la vista di un boschetto di palme dum verdi fa raccontare a monsignore che un tempo gli Italiani ne ricavavano mangime per gli animali e utilizzavano i semi per farne bottoni.

Arriviamo ad Ingherné e ci fermiamo nella casa di una sorella consacrata che tiene con sé una bellissima bambina orfana. Ci accoglie con grande cordialità e ci offre tè e biscotti. 

Dall’esterno della casa osservo il villaggio, fatto tucul. Una frotta di bambini, saputo del nostro arrivo, entrano nel cortile della casa e si fanno sempre più numerosi. Margherita ed io abbiamo la brillante idea di offrire loro delle caramelle, ma i più grandicelli sono così svelti nel farsi avanti, che alla fine qualche piccolo piange poiché è rimasto a mani vuote.

Ringraziamo la sorella, scattiamo alcune fotografie alle capanne che sono al di là del muro di cinta, fatte per lo più di palizzate, coperte con fronde di palma: quanta povertà in quella zona, assolutamente priva di verde e con qualche raro cespuglio spinoso. In lontananza intravedo una donna con delle caprette.

Dopo un’oretta ci fermiamo ad Agordat, in una casa di fratelli consacrati, che in segno di ospitalità, vanno a comperarci della coca cola e dell’aranciata…

Anche qui tanti bambini che ci rincorrono e ci guardano, curiosi e sorridenti, attraverso la porta, che mi colpisce perché è piena di buchi provocati dalle pallottole. 

Ormai sono le 17.00 e mancano ancora settanta chilometri a Barentù. Lungo la strada altre carcasse di carri armati bruciati. L’unico automezzo che incontriamo è un camion dell’Alto Commissariato ONU per i profughi, carico di giovani.

Le ambe sono sparite dall’orizzonte e siamo ormai nel bassopiano. Qua e là, capre che brucano cespugli di spini, strane mucche con la gobba e qualche cammello solitario e distratto, che strappa le cime tenere delle acacie spinose. Ogni tanto incontriamo sulla strada gruppetti di asini, ma monsignor Luca non se ne cura e tira dritto a rischio di travolgerli. 

L'Eparchia di Barentù

Finalmente, alle 18.00 arriviamo all’eparchia di Barentù, che è composta da vari edifici in muratura, ordinati e puliti. Attorno alle costruzioni il terreno è verde, perché ben innaffiato, ma poco più in là tutto è arido e crescono solo cespugli di spini.

Ci conducono nelle nostre camere un giovane consacrato e un’infermiera di nome Almàz (Smeraldo) che Lucia già conosce. La rivedremo nell’ospedaletto di Mogolò, dove presta il suo servizio. 

Poco dopo, a tavola, facciamo conoscenza con il vescovo titolare, Thomas, cunama, che ha sostituito monsignor Luca, nel dicembre 2001, padre Conrad, il più anziano della casa, grande latinista, il cappuccino più giovane Adé Mariàm (Il coraggio della Madonna), alcune sorelle consacrate. C’è anche un ospite: il dottor Cesare Manetti, italo eritreo, abitante a Chicago, che, da quando è in pensione, passa due mesi all’anno in Eritrea dedicandosi a portare aiuto agli ospedali delle zone più povere.

La cena è ottima e accompagnata da tanta cordialità.

Sediamo nel salottino dove monsignor Luca ci racconta della guerra che si è appena combattuta e delle buone prospettive di pace. Tra i libri disposti nella scaffale trovo le Storie del Brembo che avevo regalato a monsignore nel 1998, quando era venuto a trovarci a scuola a San Giovanni Bianco.

Osservo una grande statua lignea della Madonna, priva della testa, a causa di una bomba. Monsignore dice che non verrà riparata, perché si pensa di allestire un museo per ricordare gli effetti della guerra

(continua)