Massimo Calvi: “L’uomo che guardava la montagna”. Un viaggio interiore, tra meditazione e riflessioni

Montagna siccità

“Ricordi? La mattina uscivi prestissimo, per guardare dove si sarebbero fatti largo i primi raggi, aspettare il risveglio della tua porzione di valle, riempirti i polmoni e trattenere il fiato contando i secondi”.
Un romanzo-meditazione essenziale, senza fronzoli che colpisce l’anima del lettore. Stiamo parlando di “L’uomo che guardava la montagna” (Edizioni San Paolo 2022, Collana “Le Vele” pp. 183, 16,00 euro), di Massimo Calvi, nel quale un uomo alla fine dei suoi giorni, prigioniero nel suo corpo, chiede di essere portato “per il tempo che resta” davanti alla montagna a cui è legatissimo. In questa toccante storia con la dedica: “A chi mi ha insegnato a camminare, a chi ad amare”, che si dipana in dodici giorni (più uno), la montagna è l’occasione per parlare di tutto, dalla vita all’amore, dalla fede e al rapporto con la natura.
Abbiamo intervistato l’autore, caporedattore centrale e editorialista di “Avvenire”, che ha scritto diversi saggi a tema economico e sociale.
“È questa l’ora migliore per salutare la montagna”.


Come è nata l’idea del libro?

«Come tutti quelli che vivono della propria scrittura e si mantengono scrivendo, ho sempre avuto il sogno di poter scrivere qualcosa che potesse restare e che avesse più profondità di un articolo di giornale. Durante il lockdown, sono sposato, ho tre figli e vivo a Milano, mi sono ritrovato come tutti, in una condizione di reclusione con la prospettiva della morte, pensiamo a quello che è successo nella bergamasca. Questa condizione mi ha spinto a scrivere, perché mi sono reso conto in quel periodo che avevo bisogno di essere in un posto a me caro, che mi appartiene e che mi avrebbe curato quella forma di stress che tutti noi, chi più chi meno, ha avuto, legata a questa situazione di blocco. Questo posto è una casa in montagna, dove sono cresciuto e dove ho trascorso momenti indimenticabili da piccolo, da adolescente e da adulto. Per me il posto dell’anima. Così ho scritto qualcosa che mi riportasse in quel posto. Penso che una delle tante cose che la pandemia ci ha insegnato è che tutti noi abbiamo bisogno di un posto al quale appartenere. Può essere un luogo fisico, metafisico, una montagna, un fiume, una casa, un mare, anche una compagnia di amici, simbolo di tutta quella meraviglia che una persona nella sua vita ha incontrato e alla quale si aggrappa nei momenti di difficoltà. Non è necessario andarci, è il posto al quale si appartiene e al quale si è grati, perché ci ha formati e ci ha reso quello che siamo».

Che cosa cerca e cosa rappresenta la montagna per l’uomo?

«La montagna è il luogo fisico che l’uomo vuole ritrovare e rappresenta quella mappa interiore che ciascuno di noi ha avuto la fortuna di costruirsi nella vita ed è l’insieme di tutte le cose belle che si sono incontrate durante il cammino dell’esistenza. In questa raccolta di meditazioni descrivo la montagna come una madre, come un padre, come qualcuno che accompagna nella vita e che guida. La montagna è anche Dio, qualcosa che è fuori ma anche dentro di noi che ci permette alla fine una relazione di cura, che ci consente di fare pace con noi stessi come avviene al protagonista del libro che può risorgere, rinascere, mettersi in cammino. Può anche essere visto come un libro che racconta di una maturazione».


Il testo è come un viaggio interiore e universale alla ricerca di se stessi?

«Sì, anche se non è un racconto in prima persona, in questo si distingue dagli altri libri sulla montagna. Questo è un racconto che viene fatto all’uomo, in realtà. Mi piaceva questo registro, perché dà l’idea di una cura di questa persona da parte di qualcuno, perché non si può essere soli in questo percorso di cura o auto cura. Il soggetto che narra può essere la badante, il badante, un parente, anche la montagna».

È vero che per la stesura del romanzo ha tratto ispirazione anche dalle vette orobiche e
da Bordogna di Roncobello dove è cresciuto?


«Sì, il posto fisico è quello in cui sono cresciuto e dove ho una casa in Val Brembana, dove erano originari i nonni e i bisnonni materni. Nel libro ho descritto questi luoghi».


Quale insegnamento si può trarre dalla tragedia della Marmolada?


«Di sicuro dobbiamo smettere di avere un approccio predatorio nei confronti delle risorse naturali del nostro Pianeta. Dobbiamo invece avere uno sguardo di rispetto per la natura e per il Creato e questo si può avere solo se si guarda al mondo come qualcosa che ci è stato donato. Lo dico perché i cambiamenti climatici stanno influendo sulla nostra vita. Questa è stata una grande tragedia, personalmente amo la montagna come contemplazione. Dobbiamo recuperare un approccio più equilibrato con il mondo che ci circonda. Dobbiamo prendere subito delle misure urgenti, cambiando i nostri stili di vita. L’idea che mi guida è quella espressa nel “Cantico delle creature” di San Francesco, sempre attualissima».